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Un’opera di ludice acquisita da Fondazione The Bank

Un’opera di ludice acquisita da Fondazione The Bank

Un anno di successi e impegni importanti per il maestro gelese, uno dei pittori contemporanei più apprezzati

Si intitola “Verso Licata” e fa parte del “ciclo dei bagnanti” una narrazione in cui il mare è simbolo di vita ed evoluzione

Una delle maggiori istituzioni italiane per l’arte contemporanea, la “Fondazione The Bank sulla Pittura Contemporanea”, consolidato Museo italiano, ha acquisito l’opera pittorica (l’acquerello “Verso Licata”, 2024, cm 45×65 sul ciclo dei bagnanti) del maestro Giovanni ludice. Tema questo che lo ha reso protagonista della narrazione della vita semplice nella quotidianità costiera siciliana. “L’interesse sul lavoro di Giovanni ludice spiega Antonio Menon della fondazione nonché attento collezionista della pittura italiana – riflette sul percorso storico personale del maestro ludice di amante del bello, amico e collezionista di artisti importanti. Non è più una mirabile raccolta di o- rientamento soggettivo, ma vede l’oggettiva ricerca tra i migliori artisti italiani che nell’ultimo ventennio hanno trovato nella pittura la sublime ricerca e l’originalità, rispetto ad una contemporaneità più conformista. L’arte mai celebrativa e decorativa, deve cedere sempre il passo verso nuove cifre stilistiche, ciò denota come il nostro bel paese sia ancora colmo di grandi artisti. Bisogna resistere rispetto alle massificazioni della globalizzazione”. La fondazione ha sede museale a Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza. É visitabile ed è in collaborazione attiva con i mi- gliori critici italiani. In atto vi sono programmi estesi sul territorio nazionale con le migliori sedi della ricerca contemporanea. Per il maestro gelese ancora un riconoscimento alla sua arte che con la forza del colore e del rea- lismo racconta l’umanità del terzo millennio colta negli aspetti quotidiani, sia quelli belli che quelli strazianti ed ingiusti. Il 2024 è stato un anno ricco di impegni e gratificazioni per il maestro ludice. Una sua opera “Sulla cima di un albero”, matita su carta cm 75X50 è stata richiesta per l’esposizione ad Asiago al museo Le Carceri nell’ambito della mostra Gran turismo a cura di Camillo Longone scrittore e critico d’arte. In quella mostra vengono esposte opere di pittori contemporanei ritenuti eccellenti. Importante, sempre quest’anno, la partecipazione a Modica alla mostra Blu Sicilia che ha riguardato “Il mare” nell’arte isolana dal Novecento alla Contemporaneità, con l’intento di raccontare, attraverso una selezione di opere di importanti artisti non solo siciliani, il mare isolano e l’intreccio di tematiche che lo coinvolgono. Un evento di grande rilevanza che si è tinto di gelesità perché gli organizzatori hanno scelto per il banner il manifesto della mostra un’opera del maestro Giovanni ludice è stato, come detto, tra gli artisti contemporanei invitati a raccontare la poesia del mare. L’opera scelta per il banner è stata “Anima del mare” per la cui realizzazione Giovanni ludice ha trovato ispirazione sulla spiaggia gelese. Di spiagge ne ha dipinte tante Giovanni ludice, come luogo per narrare il dramma dei migranti ma anche per rappresentare la quotidianità estiva nella vita dei siciliani. La pittura che, come nel caso delle spiagge, non è edonista ma reale e il blu che domina nelle pere dedicate a mare, spiagge e bagnanti è la vita, l’evoluzione, la crescita di ciascun uomo. Lo scorso anno una delle opere del ciclo dei bagnanti è stata do- nata e messa all’asta da ludice per sostenere la ricerca sul cancro dell’Airc. Giovanni ludice è sempre stato un artista molto generoso che si è speso per le cause sociali in cui crede e soprattutto per la formazione delle nuove generazioni perché possano essere dedicate al bello.

Vittorio Sgarbi

Vittorio Sgarbi

Cent’anni di sicilitudine

…Ma una singolare testimonianza di profondissimo impegno individuale, pur ell’ambito di convincimenti comuni, e meditando all’impegno etico di Antonio López García, è quella maturata da Giovanni Iudice, pittore in equilibrio fra realismo magico e neorealismo, al quale si deve l’opera più impegnativa dipinta in Sicilia dopo La Vucciria di Guttuso, un’opera corale, nella quale si rappresenta il destino degli emigranti dall’Africa sulle coste siciliane tra Lampedusa e Gela. Quella umanità rassegnata, incapace di decidere il proprio destino, rappresenta il fallimento della speranza cento anni prima evocata nel Quarto Stato di Giuseppe Pelizza da Volpedo. Il cammino percorso dal quel popolo si è interrotto. E il viaggio verso la speranza si è rivelato, per il popolo dei disperati, un viaggio verso la morte o verso il nulla. Iudice lo racconta con freddezza, senza apparente coinvolgimento emotivo. Per il suo valore simbolico, l’opera è stata esposta nelle sale dell’Assemblea Regionale Siciliana, a Palazzo dei Normanni…

dal catalogo Artisti di Sicilia.
Da Pirandello a Iudice.
Ex Tonnara Florio Favignana
Edizioni Skira 2014

Giacinto Di Pietrantonio

Giacinto Di Pietrantonio

Un pò di Belpaese un pò no di sotto e di sopra del Po

…Tuttavia, il paesaggio dell’ITALIA ritratta non è solo quello di ieri, ma anche quello di oggi, come già detto quello delle cattedrali incompiute degli Alterazioni Video o di Giovanni ludice, che ritraendo barconi di clandestini ci mette di fronte a un nuovo paesaggio marino-umano alla deriva e in cerca di riscatto nell’ITALIA libera e liberata…

in catlogo Il Bel Paese Dell’Arte/ Etiche ed Estetiche della Nazione ,
Bergamo, Nomos Edizioni, Gamec, 2011

Vittorio Sgarbi

Vittorio Sgarbi

Finzioni

Giovanni ludice è un filosofo. La sua pittura è così reale da non poter essere considerata una semplice rappresentazione della realtà. È un punto di vista. Lo spiega bene lo stesso pittore nel suo dialogo con Andrea Guastella. Afferma: “Le opere sono come finestre, squarci aperti sul reale… A darmi una scossa non è stato tanto il confronto con la figurazione, quanto con il cinema neorealista…”. L’indicazione è chiara. Qualcuno potrebbe allora pensare che ludice ha un amore particolare per la pittura, e che coltiva il mestiere con una convinzione religiosa nella tradizione dell’Accademia. Ma quale accademia? E con quali maestri? Anche su questo punto ludice è chiaro, perfino amaro: “Non mi pare che nelle Accademie sia facile incontrare cattedratici animati da una sincera volontà di trasmettere il mestiere che, forse, non conoscono bene neanche loro. Siamo in piena crisi di maestri”. Dunque ludice è autodidatta. Ma in questa condizione la sua superbia e il suo desiderio di conoscenza sono sovrani: “L’Arte è anche ricerca del divino, di un principio superiore che dia senso all’universo”. Per questo ludice sembra perfino indifferente ai soggetti; per questo, da una dimensione intimistica, domestica, con i nudi di persone care nell’orto o nella camera da letto, passa ai clandestini, senza perdere concentrazione e coerenza di visione. Anche per questo ha una risposta. “Ho scelto di dipingere profughi, immigrati, clandestini per intima necessità, perché mi sono sentito in dovere di farlo. Credo che la figura del clandestino sia una delle icone più rappresentative del contemporaneo. Il clandestino spera, immagina la terra promessa con la morte nel cuore per la patria che ha lasciato. Ma, davanti ai suoi occhi, oltre l’oblò, c’è solo il vuoto. In una accezione molto ampia, che travalica la denuncia sociale la quale non è di fatto il mio principale obiettivo siamo tutti clandestini”. Singolare affermazione per un artista d’ordine qual è ludice, ma testimonianza preziosissima della sua estraneità a ogni forma di realismo illustrativo cui la sua ricerca sembrerebbe assimilabile. Un’idea, non un racconto, come un pensiero originale rispetto a un luogo comune: ludice non può riprodurre il mondo, vuole inventarlo, rianimarlo.
Ciò che gli interessa è dipingere la vita, rivelare il mistero della quotidianità. Nulla meglio che l’apparenza delle cose tradisce l’ordine arcano del mondo.
Noi capiamo che, mentre dipinge, ludice pensa a Velasquez, ma non gli interessa di offrircene una citazione diretta, bensi di riprodurne il pensiero. Per questo il suo apparente descrittivismo nasconde, in realtà, un processo concettuale. Lo spiega: “La mia aspirazione è racchiudere in ogni immagine la massima densità possibile di senso, e questa aspirazione può essere sod-disfatta solo da una visione anonima, non caratterizzata. Osservando tutto, ma proprio tutto quello che mi circonda, giungo a trovare la vita in cose che la gente, comunemente, non osserva”. Esiste una atarassia dello sguardo in ludice, una distanza che sembra non prevedere soggetti privilegiati, una selezione della realtà che non sia determinata dal caso. Né realismo, né iperrealismo, ma meta-realismo, una realtà che va oltre se stessa; un momento che può essere ogni altro, senza simbolismo, senza suggestioni oniriche. Ciò che è, è anche altro. In questo senso, nella pittura di ludice non vi è nessuna concessione alla fotografia, cui pure esplicitamente rimanda. C’è una realtà parallela che sembra in tutto simile alla realtà reale. E, in verità, una realtà eventuale e produce un inganno visivo. Noi crediamo di vedere; ma pensiamo invece una realtà possibile, una meta-realtà. Quella che ludice, diversamente da Canaletto, ha visto in quel momento, e che nessuno potrà mai più rivedere.
L’apparenza di una realtà. E, talvolta, l’assenza della realtà.

in catalogo Finzioni
Festival dei due Mondi, Spoleto
Comune di Salemi, Torre Circolare
Salvietti e Barabuffi editori Siena 2010

Vittorio Sgarbi

Vittorio Sgarbi

Lo sguardo umano di Iudice

ludice torna a casa. E non vede più le spiagge affollate di bagnanti che vivono una condizione
di beatitudine ingenua e incolpevole. Davanti a quelle stesse spiagge, dove ancora pigramente
turisti prendono il sole e si bagnano, vede gommoni di naufraghi incerti del loro destino e affaticati, sudati. A distinguerli immediatamente dai bagnanti, talora oscenamente ignudi, sono gli abiti a cui non rinunciano. Predestinati a non trovare quello che sperano e che cercano.
Chi non ha lavoro raggiunge sulle stesse spiagge coloro che hanno sospeso il lavoro per entrare in vacanza. Condizioni analoghe, ma psicologicamente diverse. Le spiagge dei villeggianti sono talora rarefatte, con pochi ombrelloni, con figure pigramente distese sulla sabbia. Le spiagge degli extracomunitari sono sovraffollate: seduti e rigorosamente vestiti, sono l’uno stretto al fianco dell’altro come per scaldarsi e proteggersi anche in attesa di una lunga notte. Questa è l’atmosfera del grande quadro, come una moderna Zattera della Medusa, che arriva a Gela dopo il lungo soggiorno nel Padiglione Italia della Biennale di Venezia.
Le opere recenti di ludice interpretano una quotidianità diversa, da quella che l’ha portato a rappresentare nudi di donna in interni rarefatti, in condizioni di meditazione, di noia o di assegnazione, magari mettendole in posa davanti a specchi in stanze disadorne con arredi degli anni cinquanta. È un’altra Sicilia, un’altra Gela, dove la solitudine è rifugio a consolazione e gli interni delle case offrono protezione. Talora, in quegli interni, irrompe la luce abbacinante del sole siciliano stampato oltre il balcone su palazzi ottocenteschi. Un altro rifugio sono le stanze da bagno, con donne immerse nella vasca o in procinto di asciugarsi nell’accappatoio.
Più estranianti sono i corpi nudi sui divani in concentrata meditazione. Le mura della casa sono salvezza. Fuori si apre un nuovo mondo con neri sulle strade osservati con la mediterranea nitidezza di sguardo che accomuna ludice e Antonio Lòpez Garcia. E, come quest’ultimo, anche ludice perlustra con lo sguardo luoghi insignificanti, mortificati da architetture di cemento, o strade desolate di aree urbane degradate. Lo stesso occhio, la stessa misura di Lòpez Garcia, la stessa indulgenza senza commiserazione. Così sono quelle strade, così sono quelle spiagge dominate da orrori edilizi che nessuno guarda più.
Ma una nuova, benché tragica, vitalità viene dagli emigranti che scaldano e rianimano quelle
spiagge desolate e le impregnano di una umanità disperata ma destinata a cambiare la nostra vita, la nostra percezione del mondo. Così come ha fatto ludice uscendo dalla dimensione intimistica e domestica per entrare in quella di una epica della disperazione. Una umanità neppure più disperata, cui non si può negare aiuto e assistenza, vedendo un bambino che tiene nelle piccole mani una confezione di succo di frutta.
Il panorama che ora ha davanti ludice è profondamente mutato, il suo sguardo lo registra anche nella vitalità e dinamismo di questi nuovi gruppi di persone rassegnate. ludice esce di casa, entra nell’unico mondo che gli è consentito di vedere, che è questo, con questa realtà nuova e irrinunciabile. E così si trasforma da lirico ed elegiaco in epico, con il consueto realismo caricato però, rispetto alla limpidezza del disegno precedente, di una dimensione materica, di spessori, colori, collage, di grumosa densità.
Dalla luminosità pomeridiana dei suoi interni con nudi femminili passa all’oscurità di notti senza futuro e senza speranza. Una grande notte che è calata sul mondo ed è riscaldata da provvisori
fuochi. Gli emigranti stanno vicini per sentirsi più sicuri, per avere impossibili garanzie; e l’occhio
di ludice li guarda con una oggettività che è, in sè stessa, amore, per una umanità umiliata e irriducibile.
ludice applica al mondo sempre il suo sguardo implacabile, ma, arrivato a questo punto, sembra
mitigarlo con una imprevista indulgenza. In questa nuova dimensione ci manifesta una sensibilità
nuova.

dal Catalogo “Dalla biennale di Venezia a Gela”, Fondazione Sgarbi 2011

Giuseppe Iannaccone

Giuseppe Iannaccone

Spiagge incontaminate e bianchissime, mare azzurro dai toni mpeccabili, in cui i tratti del pennello la fanno da protagonisti. Così, una decina di anni fa, i critici descrivevano le spiagge di Giovanni Iudice di cui mi innamorai. Non mi colpì soltanto
la sua indiscussa capacità tecnica, ma il fatto che ogni suo dipinto mi trasmettesse emozioni, mi ricordasse il mio sud. Poi qualcosa nella sua Sicilia cambiò e questa nuova realtà modificò per sempre il suo modo di vedere le spiagge. I dettagli certosini diventano un fatto secondario, così come diventa meno importante dipingere il mare per lasciare spazio ai volti di uomini, donne e bambini affacciati dai finestrini delle navi arrugginite. Non è la narrazione che interessa a Giovanni, ma mettere lo spettatore di fronte a una questione culturalmente e storicamente importante come la vita di migranti e di clandestini. Prendete Umanità.
Ho avuto la fortuna di vederla in anteprima, ricordo l’emozione nel sentirmi rapito da ogni pennellata e tormentato da mille punti interrogativi. Quegli uomini, impauriti e stanchi, poggiano i loro
corpi su una spiaggia che vorrei non somigliasse a nessuna spiaggia di questa terra. Grumi di colore rosso segnano impronte che sembrano uscire dalla tela, se chiudo gli occhi riesco quasi a sentirne l’odore.
Nonostante la quantità di personaggi, nessuno sembra accorgersi della presenza altrui tranne un cane che, con occhi rassegnati, osserva da
un angolo la scena.
Il silenzio regna in questa atmosfera di solitudine,
la stessa che ritrovo nelle spiagge di Giovanni anche se i protagonisti in quel caso sono bagnanti; forse il senso di solitudine lo si ha anche se non si
è clandestini. Sento che quel bambino, dalle proporzioni volutamente innaturali, è il simbolo della speranza per un mondo dove i colori nero e verde non sono sinonimo del colore della pelle e di appartenenza politica, ma segno di uguaglianza dove verrà data voce a chi voce non ce l’ha.

Dal Catalogo L’Arte non è cosa nostra
Biennale di Venezia,
padiglione Italia, 2011. Edizioni Skira

Elena Pontiggia

Elena Pontiggia

“Iudice . La persistenza del disegno”

Quando, nel 1925, Salvador Dalí tenne la sua prima personale alla Galleria Dalmau di Barcellona, pubblicò come unico testo in catalogo tre aforismi di Ingres, tra cui la famosa affermazione: “Il disegno è la probità dell’arte”. Pochi anni prima De Chirico aveva identificato la classicità stessa con la centralità del disegno, l’arte divina, come amava definirla: “I nostri maestri, prima di ogni altra cosa c’insegnarono il disegno; il disegno, l’arte divina, base di ogni costruzione classica, scheletro di ogni opera buona, legge eterna che ogni artefice deve seguire”.
Che cosa c’entrano Dalí, Ingres e De Chirico con l’opera di Giovanni ludice?
Poco, direte voi. E avete ragione. Non era nostra intenzione gravare di una genealogia troppo alta e ingombrante, di padri nobili e non richiesti, la ricerca di un giovane artista contemporaneo.
Tuttavia qui, vogliamo dire nell’opera di ludice, c’è da segnalare il fatto, insolito e a nostro parere anche incoraggiante, di un artista che si concentra sul disegno e che, a dispetto delle circostanze poco favorevoli, si ostina a praticare questa tecnica difficile, lenta, non premiata da nessun genere di vantaggio pratico o immediato. “i disegni stentano inverosimilmente ad entrare nel gusto del pubblico” scriveva Sironi nel 1930. Da allora le cose non sono cambiate, se non in peggio. Basti pensare (è solo un indizio, ma significativo) alle quotazioni che in generale riescono a spuntare le opere su carta, anche importanti, rispetto alle opere su tela, anche secondarie o addirittura mancate. È un difetto di prospettiva che ha colpito il mondo contemporaneo: non tutto, come le citazioni che prima riportavamo stanno a dimostrare, ma in larga parte.
Le ragioni di questo strabismo sono molte, e ci guardiamo bene dall’analizzarle in questa sede. Quello che invece vogliamo dire è che, nel lavoro di ludice, i disegni non sono una tecnica marginale, una dimensione minore, una ricerca preliminare e in qualche modo subordinata rispetto all’opera maggiore. No, no. Sono proprio l’opera maggiore. Senza nulla togliere ai dipinti, c’è nei suoi disegni una ricchezza di linguaggio, e staremmo per dire di colore, che ne fa una sorta di opera completa.
Chiediamo scusa al lettore per questo preambolo, senz’altro noioso, che gli abbiamo inflitto, ma il fatto è che siamo talmente abituati alla sufficienza con cui di solito si guarda ai disegni (se possiamo citare un aneddoto personale, ricordiamo bene quando un ignoto visitatore, all’ingresso di una mostra, rifiutò di entrare dicendo alla persona che lo accompagnava: “Sono solo disegni”. E si trattava di una serie di carte strepitose di De Pisis.) che certi preamboli forse non sono eccessivi.
Ma adesso veniamo ai disegni di ludice. Proprio attraverso il disegno l’artista siciliano riesce più facilmente e più compiutamente a trasformare l’iperrealismo da cui prende le mosse in una forma di realismo metafisico. Nel suo lavoro, e il caso non è molto frequente nel panorama contemporaneo, il disegno non è l’antipasto, ma il pasto. Non è la prefazione, ma il testo stesso. Non è l’opera preparatoria, ma l’opera senza aggettivi.
Facciamo qualche esempio. Prendiamo qualcuna delle sue carte che rappresentano un interno e che si soffermano su un ambiente domestico, giungendo a descriverlo nelle pieghe più nascoste.
ludice parte da un’osservazione spietata delle cose. Nessun padrone di casa permetterebbe a cuor leggero a qualcuno di entrare in quelle camere ancora in disordine, in quei letti in cui una coppia cerca intimità sotto l’ampio arabesco di una corona del rosario; o in cui dorme una donna malata, gravata dalla fatica, o semplicemente colta da quel caldo soffocante che induce alla smemoratezza, all’oblio.
Nessuna massaia avveduta sarebbe contenta di presentarci quei lavelli ingombri di stoviglie, di posate, di piatti ancora da rigovernare. E nessuna persona di comune educazione si dimenticherebbe di chiudere la porta del bagno prima di lasciarsi andare a una qualsivoglia manifestazione del suo libero arbitrio (per dirla con la sarcastica espressione di Gadda). Così come nessuna modella accetterebbe di mostrarsi nell’angolatura in cui il corpo è più rilasciato e in cui le imperfezioni che non risparmiano nemmeno la giovinezza risultano meno nascoste.
Ma, ancora, chi è quel pittore che ci inviterebbe in uno studio dove il letto è troppo vicino al cavalletto, e per di più è ancora sfatto: segno di una notte insonne, forse disturbata dal troppo lavoro, da quella concentrazione inappagata che non prelude al riposo ma a una meditazione ossessiva che non lascia tregua?
No, nessun pittore sarebbe così ingenuo, e prima di farci entrare avrebbe provveduto a ripulire almeno sommariamente l’ambiente, a togliere le tracce di vita vissuta, a eliminare i segni dell’esistenza che sono sempre un po’ disturbanti.
No, quelle porte di casa dovrebbero rimanere rigorosamente chiuse. E invece ludice le apre, ci introduce in quegli interni così poco truccati. Evidentemente vuole farci vedere la realtà com’è, senza nessun cosmetico.
Perché quelle porte ci fanno entrare nella casa della vita, che è appunto piena di cose che non vogliamo vedere…
Ma anche la natura non è diversa. ludice si trova a vivere, per caso ma anche per scelta, in una terra fra le più belle del creato. Gli basterebbe poco, spostarsi minimamente, muoversi di qualche passo, per trovare paradisi turistici e paradisi non turisticizzati. Paradisi, comunque. Invece disegna spiaqge senza nessun abbellimento, frequentate da gente qualunque distesa al sole o raccolta in gruppo. Il corpo non offre nessun lenocinio, né l’artista sceglie l’inquadratura migliore, quella più accattivante o seducente. Anche qui, ci mostra le cose come sono. Anzi, ci mostra la natura nei suoi aspetti più dimessi, più comuni.
Realismo, iperrealismo, dunque? Si, potremmo dire cosi, per quanto le etichette siano sempre inadeguate e stiano all’infinito dell’arte come il cucchiaio bucherellato della fiaba di Grimm sta alla distesa del mare.
ludice si serve della fotografia come punto di partenza, e attraverso una tecnica sapiente, affinata in lunghi anni di esercizio paziente e incontentabile. riesce a descrivere i dettagli e le pieghe della vita. Anche quelle più anti-estetiche. Dipinge le rughe, l’obesità, gli inestetismi della vita. A questo punto però, interviene il disegno, con la sua dimensione metafisica.
Ma come, non abbiamo detto che il disegno dell’artista siciliano è una fotografia che indaga la realtà millimetricamente, realizzando una sorta di trompe-l’oeil, per cui ogni cosa è aderente al suo modello originario?
È vero, ma è vero anche il contrario. (Nell’arte la coincidentia oppositorum di cui parlava Niccolò da Cusa si constata piuttosto spesso.) Il fatto è che attraverso un colore mentale, come il colore ridotto al solo alternarsi di bianco e nero della matita (anche se in ludice il bianco e nero sono in effetti una miriade di colori, e più ancora lo è il grigio, che si moltiplica in infinite gradazioni, catturando sempre diverse quantità di luce, e quindi dando luogo a una continua variazione tonale), spazio e tempo si confondono.
La realtà diventa rappresentazione e la rappresentazione diventa il luogo dell’altrove. Come in un sogno, o in un’esperienza virtuale.
Proprio il realismo, insomma, mette fra parentesi la realtà. Tutto è così evidente da diventare incomprensibile. Tutto è così chiaro da sembrare inspiegabile. Tutto è così conosciuto da risultare ignoto.
Si assiste allora a un effetto di straniamento, un po’ alla Wyeth. La scena quotidiana appare piena di enigmi, di ambiguità, di tranelli.
Forse ludice vuole dire proprio questo. Che il mistero non va cercato nell’esotico, nel misterioso. Il mistero si annida nelle cose più familiari: niente è più sconosciuto dell’amico che crediamo di conoscere come noi stessi. Del resto, cosa c’è di strano? Forse che conosciamo noi stessi?
Il disegno, portato a quell’altezza in cui la tecnica non si accontenta più di un banale virtuosismo (il virtuosismo è sempre banale: solo gli ingenui se ne meravigliano), contribuisce allora a svelare il segreto delle cose. O meglio, a svelare che le cose racchiudono un segreto. Proprio quelle più familiari.
Proprio quelle più evidenti.
Per questo l’espressione “realismo metafisico”, nel caso di ludice, non è una contraddizione. Perché ludice sa bene (l’ha imparato e vuole insegnarcelo) che il visibile si divide in due parti sostanzialmente quali: il visibile propriamente detto e l’invisibile.

in Catalogo Giovanni Iudice
Gam Palermo 2009
edizioni Charta, Milano

Francesco Gallo Mazzeo

Francesco Gallo Mazzeo

“Visibile…Invisibile”

La pittura di Giovanni ludice mi giunge nuova, anzi antica, con un misto di attualità immediata e di memoria lontana, introducendo un’ambiguità creativa che è tipica di tutte le zone di confine, dove si gioca la grande partita tra continuità, intesa come filologia di un passato che ha, ancora, tante cose da insegnarci (e noi da imparare), discontinuità, come viaggio nell’universo sconosciuto della realtà, che man mano ci appare, e l’esuberante vitalità del sogno che attua i desideri, per quanto metafisici o surreali possano apparire.
Si tratta di una fisica del quotidiano, che mette in scena i gesti e le movenze della normalità, colti nell’attimo fuggente del loro svolgersi e trasformati in icone significative del nostro tempo, che è anche il suo, in una grande attuazione con i colori morbidi della pittura che riprendono le linee decise di un disegno che c’è sempre, anche quando non si vede.
Ed è, appunto, questa la struttura significante del lavoro sulle vicinanze immediate della sua vita di relazioni, con il corpo femminile, con le scene di
gruppo, con le vedute paesaggistiche, che chiudono il cerchio intorno al suo immaginario, tanto febbricitante nel suo essere intimo e sensuale, quanto solare nel suo apparire narrativo e dialogante.
Tutto sembra scorrere normalmente, in un universo di gesti e di movenze che composti insieme possono mettere a segno delle intere biografie della normalità, che non sono mai schiacciate in una sola dimensione, ma sono vivificate da una cromaticità soffice che diventa corporeità virtuale, avvincente, affascinante, che in certi momenti è più reale del reale, tanto da tramare un inganno alla percezione immediata, quella che si stampa nella memoria e diventa indelebile presenza del monologo interiore, quello che si richiama al silenzio delle parole, che è fatto di niente ma è linguaggio assoluto.
Nella vasta gamma del visibile, Giovanni ludice esprime, anche nel disegno, una grande volontà di appropriazioni della vita che lo circonda, con la
forza di un’astrazione formale, che diventa la dilatazione del suo squardo “scientifico”, indagatore di sorrisi e di indifferenze, che nel tracciato netto della matita fanno architetturalità, mentre nella sfumatura riempiono gli spazi interstiziali, delineando il territorio intimo dove tutto si tiene nel segno in sé, che diventa astrazione.
Avviene, cosi, il paradosso che un massimo di concretezza, un verticalismo di mimesis, diventi astrazione, accogliendo una vocazione intima del disegno che, alla fine, non somiglia ad altri che a sé stesso, anche se ha lavorato sulle singolarità realistiche, che non cessano affatto di essere tali quando diventano simboliche, espressioni di uno spirito del tempo.
Comunque tra disegno e pittura, in Giovanni ludice, c’è un rapporto totalitario, di osmosi, con un continuo trapasso di esperienze formali, non ascrivibili a un prima e a un dopo, perché questo richiamerebbe un disegno come primo tempo della pittura, configurandolo come studium, mentre alla pittura non potrebbe che toccare il punctum. Ma non è così, perché a questo disegno tocca l’onere dell’essere un’opera finita, quindi di specchiarsi sulla pittura costituendone un doppio, fatto di essenzialità strutturale, una sorta di radiografia sui generis che scende sotto la trasparenza della pelle, mettendo in luce tutto l’apparato labirintico che pervade le sensazioni dell’oggettività, sia quelle delle situazioni ambientali che delle immagini umane, in preminenze di nudo femminile.
Sottolineare le peculiarità del disegno mi permette di cogliere il suo modo segreto di rapportarsi col visibile, cogliendo quell’estremamente visibile che è tanto esposto nella sua nudità metaforica da scomparire, da tradursi in sostanzialmente invisibile per precipitazione nell’altro da sé, come se venisse colto in un ambito formale esorbitante dalla nostra strettoia, accecata da ultravioletti e infrarossi.
Nel disegno, lavorato in maniera certosina, come un tessuto irrorato da un misterioso scorrere di linfe vitali, colgo le impronte di una calligrafia che lo accomuna all’ontologia di Antonio López García, in ricordo di una lontana comunanza edenica da cui ognuno parte inesorabilmente per seguire un proprio percorso che in parte è intenzionale, in parte è in deriva inevitabile, fino ad arrivare alle quiete piegature di un Dennis Hopper, nella sottolineatura delle contaminazioni essenziali e fondanti con il mezzo fotografico.
Perché, appunto, il mezzo fotografico è assunto come trasportatore d’immobilità, al flusso e alle dinamiche di quell’opera di luce in cui, noi tutti, siamo soggetti e oggetti, in cui tutto avviene, nel pieno del giorno, nell’incombenza di ogni crepuscolo e nella paura della notte, che è la prefigura ossessiva della morte.
Con questo, non voglio dire che ci sia solo un flusso del disegno sulla pittura, ma ci sono due flussi particolari, perché dalla pittura viene quel senso pieno, che c’è anche nel disegno, di un anticlassicismo con venature espressionistiche, sia senza forzature di toni e di forme, delineando uno scorrimento che, prima d’essere reale qual è, appare immerso nel pieno dell’altro da sé, perché è mentale, frutto di un desiderio, di un inconscio desiderio di rovistare nella vita degli altri, stando attento a non distoglierli dalla vita di tutti i giorni, che è poi la vita pura e semplice dei singoli, dei tanti, di molti, di tutti.
Eppure non finisce di sorprendere, sospendendo, ogni volta, l’attenzione alla tramatura preziosa della composizione e conciliandola poi con il suo tono generale, che restituisce la totalità di ogni singola opera, come anello di una catena fatta di mille diversità che non discendono da nessun modello, da nessun ideale, ma sono l’esito di un fermento della singolarità che è frutto del caso, della necessità, ma anche di una cultura che inventa e sovverte ogni cosa.
C’è del Freud in questi lavori, c’è del Cooper, c’è del Musil, c’è del Proust non già in referenza diretta, ma come aura cangiante, assorbita dalla porosità della pelle, da una trasposizione che è possibile in quanto questo mondo appartiene a ludice nella sua interezza, perché lo conosce in tutte le sue sfumature, ma non per questo finisce di ammaliarlo, tanto da indurlo a dedicargli i capitoli di questa enciclopedia immaginaria, dove le addizioni e le sottrazioni si eliminano a vicenda e lasciano ogni volta un grado zero, per cominciare di nuovo a seguire la linea d’ombra, ma anche quelle della luce.
Il carattere postmoderno di questa pittoricità è tutto concentrato nel superamento di ogni tradizionale tematica dell’impegno, così come potrebbe suggerire la sua situazione a Gela, che ad altri avrebbe potuto indurre una tematica sociale, locale, che ludice ha sempre respinto, concentrandosi nei luoghi dell’intimità della segretezza.
Penso al nudo femminile, colto nella sua naturalità aurorale, senza trucco e senza pesante scenografia, senza perseguimento dei miti della bellezza, a cui i grandi media costringono tutti, inducendo a costosi rifacimenti di labbra, seni, cosce, pance, mani, piedi, costituendo una megaofficina della bellezza che, sottostando al sistema della moda, non fa delle acconciature definitive, ma allestisce delle teatralità provvisorie e reversibili.
A Giovanni ludice interessa il tasso di realismo immediato che gli dà il fermo immagine dello scatto fotografico, mettendosi in concorrenza con oqni cinematica, rovesciandola nel suo opposto e quindi scoprendo un visibile che a occhio nudo è invisibile, per cui c’è sempre un emanazione di sorpresa che rende enigmatiche anche le cose più conosciute.
Le donne di Giovanni ludice sono indifese, così come i suoi bagnanti, i suoi migranti, i suoi rari amanti, spiati per essere affermati come referenti di una contemplazione in cui ognuno ricostruisce una propria icona o un proprio idolo a cui rivolgere uno squardo rituale che ha il valore di un conoscere e di un conoscersi, che è un itinerarium che si chiama Narciso, in quanto essenziale specularità di sé stesso.
Un certo tema dell’impegno, ma teso più alla lettura fisionomica dei volti e alla mimica dei gesti, lo ha sottratto alla cronaca dei migranti provenienti dai luoghi più diversi, attraverso deserti e mari, per venire da noi: lui li coglie nell’ultimo miglio con un caravaggesco realismo, senza bandiera, governato dal dolore e dalla speranza, come a dire che il rapporto stretto con sé stessi non preclude, anzi afferma, l’essenza corale di un linguaggio creativo.
Nel pieno di un anacronismo totalmente appartenente alle qualità rizomatiche del nostro tempo, quest’incontro con Giovanni ludice mi conferma lo sconfinamento dell’arte contemporanea nell’impossibilità di coglierne tutte le contaminazioni, perché qualcuna finisce sempre con lo sfuggire, in un mac-chinismo di completa teatralizzazione del mondo in cui è ancora possibile anche l’impossibile.
Come lo stare appartato in un angolo speciale della Sicilia dove un giorno, prepotente, è passata la storia e oggi impietosa passa la cronaca, vivendo in un proprio regime d’individualità in una campana di vetro, straniante, che lascia fuori tutto ciò che non appartiene alla propria psicologia linguistica, formale, olfattiva, tattile, per formulare una propria singolare esperienza del saper vedere che chiede ospitalità alla storia – per quel tanto che tutte le forme e tutti gli accadimenti sono storici – ma poi tratta le stanze, i giardini, le strade, le piazze della sua vita come codici che necessitano di un’ermeneutica leggera, che sappia leggere ciò che in essi avviene ma senza analisi dissacranti e distruttive, da spiriti inquieti, in preda a eterno furore.
Giovanni ludice ha un atteggiamento morandiano che non si lascia trasportare dalle emozioni e dalle ossessività, che pure gli appartengono in sfera intima, per trattare con compassatezza, direi chirurgica, i suoi riferimenti di un hic et nunc che ha un grande spessore, che appassiona chi come me, dai molteplici incontri con Cesare Musatti ha mutuato una cultura del sospetto che dietro ogni muro ci sia una cassaforte, dietro ogni specchio ci sia un antro segreto, e qui una pittura fortemente poematica, coinvolta oltre le apparenze e le evidenze, nei solchi negati degli archetipi e delle remote quintessenze.

Francesco Gallo Mazzeo
in Catalogo Giovanni Iudice Gam Palermo 2009 ed Charta, milano

Maurizio Sciaccaluga

Maurizio Sciaccaluga

Il realismo acre di Giovanni Iudice

Paesaggi e colori, inconfondibilmente, quelli della Sicilia. Spiagge incontaminate e bianchissime, mare azzurro o turchese, alberi e piante d’un verde spento, consumato dal sole incalzante. Anche le donne, ritratte nella semioscurità di stante semplici e spoglie, o in mezzo a improvvisati orti di periferia, hanno i caratteri tipici del Sud. Sono rotonde, carnose, colla pelle bruma e gli squardi fieri e diretti. Giovanni ludice, 33 anni, da Gela, nella parte meridionale dell’isola, nelle sue opere racconta il mondo dov’e nato e cresciuto e dove intende continuare a vivere.
….se le scelte di vita di ludice sembrano andare controcorrente- a differenza di tanti suoi colleghi non ha alcuna intenzione di trasferirsi in una grande città, dove pure le relazioni potrebbero favorire, e molto il successo-, il lavoro, lento e certosino, non è da meno. Mentre la nuova figurazione italiana, spinta dalle richieste di mercato, spesso si dedica a produzioni semindustriali, e punta su una diffusione incontrollata dei pezzi, l’autore siciliano dipinge solo dodici, quindici piccoli oli l’anno, non uno di più.
Tutto qui. I grandi numeri non fanno per lui, al pari delle grandi dimensioni, anche perché ogni opera ha una genesi lunga e complessa, e tempi vissuti al rallentatore. Scelti i modelli( è infatti davvero raro che nei quadri manchi la presenza umana), l’artista li fotografa sulla spiaggia, a bagno in un fiume, tra la vegetazione, sul letto o tra i muri di una stanza. Stampata l’immagine , torna sul luogo del delitto per controllare che i colori siano quelli naturali che non esistano dominanti, che le atmosfere della
riproduzione siano il più possibile simili a quelle originali. Impostato il quadro in studio, per le rifiniture e le velature finali si reca, per la terza volta, nei luoghi raffigurati, e li finalmente porta a termine le sue fatiche. Una corvè. “Il contatto con la realtà per me è fondamentale”, ammette ludice. “Se potessi, in casa o fuori, in acqua o tra gli alberi, costringerei le modelle a posare immobili per giorni. Fermerei il tempo, poi riprenderei il mondo in ogni dettaglio, negando ogni spazio all’immaginazione.
…molto spesso nei quadri di ludice, che si tratti di rappresentazioni d’interni, di spiagge o di cortili, a stornare l’attenzione degli spettatori da luoghi e ambienti ci pensano i nudi. Di giovani donne, in prevalenza. Sempre sensuali, mai provocanti o sfacciati. Le ragazze sono riprese nei momenti di rilassata intimità, in pose naturali dettate più dal desiderio di riposo che dalla voglia di mostrarsi. I corpi vengono descritti con assoluta sincerità, con tutte quelle piccole imperfezioni che li rendono vere e vivi. Dipingo sguardi rubati”, dice l’autore. “Indiscreti gettati di nascosto sulla vicina di casa, sull’amica della porta accanto. Che vedendosi osservata, non abituata ai voyeur, ricambia quegli sguardi con aria di rimprovero e di sfida, ma anche sinceramente divertita.” Seppur lontana dalla denuncia sociale delle pellicole neorealiste, la pittura dell’artista siciliano ha molte affinità. ricercate, con la grande stagione del cinema italiano del dopoguerra. Fra le tante, spicca soprattutto l’interesse per i momenti privati della piccola borghesia, i suoi segreti di scarso valore, i suoi svaghi a poco prezzo. E si fa notare la curiosità nei confronti di
quel proletariato che è riuscito a emanciparsi, a darsi abitudini e costumi non più solo da stretta sopravvivenza. Abitudini e costumi magari ingenui,semplici, ma per questo anche immediatamente condivisibili. “Mi interessa la vita vissuta, amo le esperienze comuni, testate dalla maggioranza delle persone”, racconta. “Non voglio figure ideali nelle mie opere. Non mi piacciono,per esempio, le donne da sogno. Preferisco quelle che s’incontrano al lavoro, al bar, ai grandi magazzini, col loro carico di contraddizioni e piccolezze.

(da Arte,Mondadori, Settembre 2003)

Flaminio Gualdoni

Flaminio Gualdoni

Per Giovanni Iudice

La luce bonnardiana della Stanza, 2000, ripensata sulla tradizione nuova dei Freud e dei Pearlstein. Così, in sintesi, e a voler essere generici, si potrebbe racchiudere in slogan l’approccio pittorico di Giovanni ludice. Ma si sarebbe, appunto, generici, e ingenerosi. Iudice non muove da modelli rassicuranti scegliendosene epigono. Una tradizione riconosce, ma con amore feroce e lucido, senza rispetto. Questo dicono, primariamente, le misure fiamminghe delle tele e delle tavole, sulle quali egli interviene con lavorio cautelato, assorto, in cui lo scrutinio di ogni passaggio comporta l’addensarsi lento e meticoloso dei toni, dei veli, come per coagulo luminoso. Circoscritto, padroneggiabile è l’ambito della definizione pittorica, ossessione sottile della finestra e, più, spazio rappreso in cui l’arroganza della visività può ribaltarsi, per accelerazioni e deviazioni
infinitesime, in passo visionario.
Alla visione, al regard, egli si rivolge elidendo ogni affettazione di stile e di modo, con sguardo diretto e arguto, con l’umiltà, in prima istanza, di un what you see complice della storia dei rapporti tra pittura e fotografia, senza l’abbigliamento di una preventiva clausola di sottrazione e di trascrizione. Altro gli sta a cuore. Il farsi forma e, più, il farsi clima emotivo della scena attraverso la luce; della luce, quell’incidere sui corpi, quel bagnarli delle proprie temperature restituendoli in sorta di apparizioni di dubitante fisicità, di sfuggente plasticità, di inafferrabile sensualità, ma di intensa presenza; della presenza, quella reticenza narrativa, quella istantaneità atmosferica, come momento non esemplare di una fluenza luminosa che vale il tempo.
Ecco, dunque, l’operare sui toni in diminuendo, come scavando nell’ombra, negli interni, che rimontano alle bianchezze di luce diurna senza algori mentali, come per transito naturale d’affetti.
Ecco, per converso, i paesaggi marini e, più, la scommessa tematica di Nudo nell’orto, tentare condizioni luminose alte, piene, quasi un nitore che la luce solare rende esemplare, fra dorature meridiane e toni argentini. ludice va saggiando, in questo suo ancor breve corso d’opera – ma che ne fa, già, una delle figure problematicamente più autentiche e interessanti della generazione nuova, una sorta di metabolizzazione definitiva dello iato tra modernità a tradizione, tra vero ottocentesco e artificio mentalmente analizzato novecentesco, in nome di una normalità dello sguardo che sia consapevole, colta, orgogliosa dei propri retaggi storici, ma a un tempo capace di esercitarsi per visioni fragranti, dirette, non allusive ad altro che alla propria qualità d’esperienza.
Non è un caso, in tal senso, che egli operi attentamente, parimenti che alla identificazione del tono luminoso, sul taglio d’immagine, bordeggiando i protocolli di genere ma sempre immettendovi deviazioni significative: non è, il suo, un comporre ordinato, ma un continuo decostruire e ricostruire, sino al punto in cui la visione si innesca di una sorta di teso equilibrio interno, appena riverberante ma fondamentale per far lievitare la più esplicita azione sui valori di tono.
Molto di tali ambizioni pittoriche è nei quadri presenti, e molto altro si intuisce, in termini di sviluppi, precisazioni, decantazioni. E un lavoro con un destino, quello di ludice: del quale, è certo, sarà assai fruttuoso esser curiosi.

In catalogo “Giovanni Iudice”, 2002
Galleria Brera 5 Milano edizioni Mazzotta