Giacinto Di Pietrantonio

Giacinto Di Pietrantonio

Un pò di Belpaese un pò no di sotto e di sopra del Po

…Tuttavia, il paesaggio dell’ITALIA ritratta non è solo quello di ieri, ma anche quello di oggi, come già detto quello delle cattedrali incompiute degli Alterazioni Video o di Giovanni ludice, che ritraendo barconi di clandestini ci mette di fronte a un nuovo paesaggio marino-umano alla deriva e in cerca di riscatto nell’ITALIA libera e liberata…

in catlogo Il Bel Paese Dell’Arte/ Etiche ed Estetiche della Nazione ,
Bergamo, Nomos Edizioni, Gamec, 2011

Vittorio Sgarbi

Vittorio Sgarbi

Finzioni

Giovanni ludice è un filosofo. La sua pittura è così reale da non poter essere considerata una semplice rappresentazione della realtà. È un punto di vista. Lo spiega bene lo stesso pittore nel suo dialogo con Andrea Guastella. Afferma: “Le opere sono come finestre, squarci aperti sul reale… A darmi una scossa non è stato tanto il confronto con la figurazione, quanto con il cinema neorealista…”. L’indicazione è chiara. Qualcuno potrebbe allora pensare che ludice ha un amore particolare per la pittura, e che coltiva il mestiere con una convinzione religiosa nella tradizione dell’Accademia. Ma quale accademia? E con quali maestri? Anche su questo punto ludice è chiaro, perfino amaro: “Non mi pare che nelle Accademie sia facile incontrare cattedratici animati da una sincera volontà di trasmettere il mestiere che, forse, non conoscono bene neanche loro. Siamo in piena crisi di maestri”. Dunque ludice è autodidatta. Ma in questa condizione la sua superbia e il suo desiderio di conoscenza sono sovrani: “L’Arte è anche ricerca del divino, di un principio superiore che dia senso all’universo”. Per questo ludice sembra perfino indifferente ai soggetti; per questo, da una dimensione intimistica, domestica, con i nudi di persone care nell’orto o nella camera da letto, passa ai clandestini, senza perdere concentrazione e coerenza di visione. Anche per questo ha una risposta. “Ho scelto di dipingere profughi, immigrati, clandestini per intima necessità, perché mi sono sentito in dovere di farlo. Credo che la figura del clandestino sia una delle icone più rappresentative del contemporaneo. Il clandestino spera, immagina la terra promessa con la morte nel cuore per la patria che ha lasciato. Ma, davanti ai suoi occhi, oltre l’oblò, c’è solo il vuoto. In una accezione molto ampia, che travalica la denuncia sociale la quale non è di fatto il mio principale obiettivo siamo tutti clandestini”. Singolare affermazione per un artista d’ordine qual è ludice, ma testimonianza preziosissima della sua estraneità a ogni forma di realismo illustrativo cui la sua ricerca sembrerebbe assimilabile. Un’idea, non un racconto, come un pensiero originale rispetto a un luogo comune: ludice non può riprodurre il mondo, vuole inventarlo, rianimarlo.
Ciò che gli interessa è dipingere la vita, rivelare il mistero della quotidianità. Nulla meglio che l’apparenza delle cose tradisce l’ordine arcano del mondo.
Noi capiamo che, mentre dipinge, ludice pensa a Velasquez, ma non gli interessa di offrircene una citazione diretta, bensi di riprodurne il pensiero. Per questo il suo apparente descrittivismo nasconde, in realtà, un processo concettuale. Lo spiega: “La mia aspirazione è racchiudere in ogni immagine la massima densità possibile di senso, e questa aspirazione può essere sod-disfatta solo da una visione anonima, non caratterizzata. Osservando tutto, ma proprio tutto quello che mi circonda, giungo a trovare la vita in cose che la gente, comunemente, non osserva”. Esiste una atarassia dello sguardo in ludice, una distanza che sembra non prevedere soggetti privilegiati, una selezione della realtà che non sia determinata dal caso. Né realismo, né iperrealismo, ma meta-realismo, una realtà che va oltre se stessa; un momento che può essere ogni altro, senza simbolismo, senza suggestioni oniriche. Ciò che è, è anche altro. In questo senso, nella pittura di ludice non vi è nessuna concessione alla fotografia, cui pure esplicitamente rimanda. C’è una realtà parallela che sembra in tutto simile alla realtà reale. E, in verità, una realtà eventuale e produce un inganno visivo. Noi crediamo di vedere; ma pensiamo invece una realtà possibile, una meta-realtà. Quella che ludice, diversamente da Canaletto, ha visto in quel momento, e che nessuno potrà mai più rivedere.
L’apparenza di una realtà. E, talvolta, l’assenza della realtà.

in catalogo Finzioni
Festival dei due Mondi, Spoleto
Comune di Salemi, Torre Circolare
Salvietti e Barabuffi editori Siena 2010

Vittorio Sgarbi

Vittorio Sgarbi

Lo sguardo umano di Iudice

ludice torna a casa. E non vede più le spiagge affollate di bagnanti che vivono una condizione
di beatitudine ingenua e incolpevole. Davanti a quelle stesse spiagge, dove ancora pigramente
turisti prendono il sole e si bagnano, vede gommoni di naufraghi incerti del loro destino e affaticati, sudati. A distinguerli immediatamente dai bagnanti, talora oscenamente ignudi, sono gli abiti a cui non rinunciano. Predestinati a non trovare quello che sperano e che cercano.
Chi non ha lavoro raggiunge sulle stesse spiagge coloro che hanno sospeso il lavoro per entrare in vacanza. Condizioni analoghe, ma psicologicamente diverse. Le spiagge dei villeggianti sono talora rarefatte, con pochi ombrelloni, con figure pigramente distese sulla sabbia. Le spiagge degli extracomunitari sono sovraffollate: seduti e rigorosamente vestiti, sono l’uno stretto al fianco dell’altro come per scaldarsi e proteggersi anche in attesa di una lunga notte. Questa è l’atmosfera del grande quadro, come una moderna Zattera della Medusa, che arriva a Gela dopo il lungo soggiorno nel Padiglione Italia della Biennale di Venezia.
Le opere recenti di ludice interpretano una quotidianità diversa, da quella che l’ha portato a rappresentare nudi di donna in interni rarefatti, in condizioni di meditazione, di noia o di assegnazione, magari mettendole in posa davanti a specchi in stanze disadorne con arredi degli anni cinquanta. È un’altra Sicilia, un’altra Gela, dove la solitudine è rifugio a consolazione e gli interni delle case offrono protezione. Talora, in quegli interni, irrompe la luce abbacinante del sole siciliano stampato oltre il balcone su palazzi ottocenteschi. Un altro rifugio sono le stanze da bagno, con donne immerse nella vasca o in procinto di asciugarsi nell’accappatoio.
Più estranianti sono i corpi nudi sui divani in concentrata meditazione. Le mura della casa sono salvezza. Fuori si apre un nuovo mondo con neri sulle strade osservati con la mediterranea nitidezza di sguardo che accomuna ludice e Antonio Lòpez Garcia. E, come quest’ultimo, anche ludice perlustra con lo sguardo luoghi insignificanti, mortificati da architetture di cemento, o strade desolate di aree urbane degradate. Lo stesso occhio, la stessa misura di Lòpez Garcia, la stessa indulgenza senza commiserazione. Così sono quelle strade, così sono quelle spiagge dominate da orrori edilizi che nessuno guarda più.
Ma una nuova, benché tragica, vitalità viene dagli emigranti che scaldano e rianimano quelle
spiagge desolate e le impregnano di una umanità disperata ma destinata a cambiare la nostra vita, la nostra percezione del mondo. Così come ha fatto ludice uscendo dalla dimensione intimistica e domestica per entrare in quella di una epica della disperazione. Una umanità neppure più disperata, cui non si può negare aiuto e assistenza, vedendo un bambino che tiene nelle piccole mani una confezione di succo di frutta.
Il panorama che ora ha davanti ludice è profondamente mutato, il suo sguardo lo registra anche nella vitalità e dinamismo di questi nuovi gruppi di persone rassegnate. ludice esce di casa, entra nell’unico mondo che gli è consentito di vedere, che è questo, con questa realtà nuova e irrinunciabile. E così si trasforma da lirico ed elegiaco in epico, con il consueto realismo caricato però, rispetto alla limpidezza del disegno precedente, di una dimensione materica, di spessori, colori, collage, di grumosa densità.
Dalla luminosità pomeridiana dei suoi interni con nudi femminili passa all’oscurità di notti senza futuro e senza speranza. Una grande notte che è calata sul mondo ed è riscaldata da provvisori
fuochi. Gli emigranti stanno vicini per sentirsi più sicuri, per avere impossibili garanzie; e l’occhio
di ludice li guarda con una oggettività che è, in sè stessa, amore, per una umanità umiliata e irriducibile.
ludice applica al mondo sempre il suo sguardo implacabile, ma, arrivato a questo punto, sembra
mitigarlo con una imprevista indulgenza. In questa nuova dimensione ci manifesta una sensibilità
nuova.

dal Catalogo “Dalla biennale di Venezia a Gela”, Fondazione Sgarbi 2011

Giuseppe Iannaccone

Giuseppe Iannaccone

Spiagge incontaminate e bianchissime, mare azzurro dai toni mpeccabili, in cui i tratti del pennello la fanno da protagonisti. Così, una decina di anni fa, i critici descrivevano le spiagge di Giovanni Iudice di cui mi innamorai. Non mi colpì soltanto
la sua indiscussa capacità tecnica, ma il fatto che ogni suo dipinto mi trasmettesse emozioni, mi ricordasse il mio sud. Poi qualcosa nella sua Sicilia cambiò e questa nuova realtà modificò per sempre il suo modo di vedere le spiagge. I dettagli certosini diventano un fatto secondario, così come diventa meno importante dipingere il mare per lasciare spazio ai volti di uomini, donne e bambini affacciati dai finestrini delle navi arrugginite. Non è la narrazione che interessa a Giovanni, ma mettere lo spettatore di fronte a una questione culturalmente e storicamente importante come la vita di migranti e di clandestini. Prendete Umanità.
Ho avuto la fortuna di vederla in anteprima, ricordo l’emozione nel sentirmi rapito da ogni pennellata e tormentato da mille punti interrogativi. Quegli uomini, impauriti e stanchi, poggiano i loro
corpi su una spiaggia che vorrei non somigliasse a nessuna spiaggia di questa terra. Grumi di colore rosso segnano impronte che sembrano uscire dalla tela, se chiudo gli occhi riesco quasi a sentirne l’odore.
Nonostante la quantità di personaggi, nessuno sembra accorgersi della presenza altrui tranne un cane che, con occhi rassegnati, osserva da
un angolo la scena.
Il silenzio regna in questa atmosfera di solitudine,
la stessa che ritrovo nelle spiagge di Giovanni anche se i protagonisti in quel caso sono bagnanti; forse il senso di solitudine lo si ha anche se non si
è clandestini. Sento che quel bambino, dalle proporzioni volutamente innaturali, è il simbolo della speranza per un mondo dove i colori nero e verde non sono sinonimo del colore della pelle e di appartenenza politica, ma segno di uguaglianza dove verrà data voce a chi voce non ce l’ha.

Dal Catalogo L’Arte non è cosa nostra
Biennale di Venezia,
padiglione Italia, 2011. Edizioni Skira