Giovanni ludice è un filosofo. La sua pittura è così reale da non poter essere considerata una semplice rappresentazione della realtà. È un punto di vista. Lo spiega bene lo stesso pittore nel suo dialogo con Andrea Guastella. Afferma: “Le opere sono come finestre, squarci aperti sul reale… A darmi una scossa non è stato tanto il confronto con la figurazione, quanto con il cinema neorealista…”. L’indicazione è chiara. Qualcuno potrebbe allora pensare che ludice ha un amore particolare per la pittura, e che coltiva il mestiere con una convinzione religiosa nella tradizione dell’Accademia. Ma quale accademia? E con quali maestri? Anche su questo punto ludice è chiaro, perfino amaro: “Non mi pare che nelle Accademie sia facile incontrare cattedratici animati da una sincera volontà di trasmettere il mestiere che, forse, non conoscono bene neanche loro. Siamo in piena crisi di maestri”. Dunque ludice è autodidatta. Ma in questa condizione la sua superbia e il suo desiderio di conoscenza sono sovrani: “L’Arte è anche ricerca del divino, di un principio superiore che dia senso all’universo”. Per questo ludice sembra perfino indifferente ai soggetti; per questo, da una dimensione intimistica, domestica, con i nudi di persone care nell’orto o nella camera da letto, passa ai clandestini, senza perdere concentrazione e coerenza di visione. Anche per questo ha una risposta. “Ho scelto di dipingere profughi, immigrati, clandestini per intima necessità, perché mi sono sentito in dovere di farlo. Credo che la figura del clandestino sia una delle icone più rappresentative del contemporaneo. Il clandestino spera, immagina la terra promessa con la morte nel cuore per la patria che ha lasciato. Ma, davanti ai suoi occhi, oltre l’oblò, c’è solo il vuoto. In una accezione molto ampia, che travalica la denuncia sociale la quale non è di fatto il mio principale obiettivo siamo tutti clandestini”. Singolare affermazione per un artista d’ordine qual è ludice, ma testimonianza preziosissima della sua estraneità a ogni forma di realismo illustrativo cui la sua ricerca sembrerebbe assimilabile. Un’idea, non un racconto, come un pensiero originale rispetto a un luogo comune: ludice non può riprodurre il mondo, vuole inventarlo, rianimarlo.
Ciò che gli interessa è dipingere la vita, rivelare il mistero della quotidianità. Nulla meglio che l’apparenza delle cose tradisce l’ordine arcano del mondo.
Noi capiamo che, mentre dipinge, ludice pensa a Velasquez, ma non gli interessa di offrircene una citazione diretta, bensi di riprodurne il pensiero. Per questo il suo apparente descrittivismo nasconde, in realtà, un processo concettuale. Lo spiega: “La mia aspirazione è racchiudere in ogni immagine la massima densità possibile di senso, e questa aspirazione può essere sod-disfatta solo da una visione anonima, non caratterizzata. Osservando tutto, ma proprio tutto quello che mi circonda, giungo a trovare la vita in cose che la gente, comunemente, non osserva”. Esiste una atarassia dello sguardo in ludice, una distanza che sembra non prevedere soggetti privilegiati, una selezione della realtà che non sia determinata dal caso. Né realismo, né iperrealismo, ma meta-realismo, una realtà che va oltre se stessa; un momento che può essere ogni altro, senza simbolismo, senza suggestioni oniriche. Ciò che è, è anche altro. In questo senso, nella pittura di ludice non vi è nessuna concessione alla fotografia, cui pure esplicitamente rimanda. C’è una realtà parallela che sembra in tutto simile alla realtà reale. E, in verità, una realtà eventuale e produce un inganno visivo. Noi crediamo di vedere; ma pensiamo invece una realtà possibile, una meta-realtà. Quella che ludice, diversamente da Canaletto, ha visto in quel momento, e che nessuno potrà mai più rivedere.
L’apparenza di una realtà. E, talvolta, l’assenza della realtà.
in catalogo Finzioni
Festival dei due Mondi, Spoleto
Comune di Salemi, Torre Circolare
Salvietti e Barabuffi editori Siena 2010