Flaminio Gualdoni

Flaminio Gualdoni

Per Giovanni Iudice

La luce bonnardiana della Stanza, 2000, ripensata sulla tradizione nuova dei Freud e dei Pearlstein. Così, in sintesi, e a voler essere generici, si potrebbe racchiudere in slogan l’approccio pittorico di Giovanni ludice. Ma si sarebbe, appunto, generici, e ingenerosi. Iudice non muove da modelli rassicuranti scegliendosene epigono. Una tradizione riconosce, ma con amore feroce e lucido, senza rispetto. Questo dicono, primariamente, le misure fiamminghe delle tele e delle tavole, sulle quali egli interviene con lavorio cautelato, assorto, in cui lo scrutinio di ogni passaggio comporta l’addensarsi lento e meticoloso dei toni, dei veli, come per coagulo luminoso. Circoscritto, padroneggiabile è l’ambito della definizione pittorica, ossessione sottile della finestra e, più, spazio rappreso in cui l’arroganza della visività può ribaltarsi, per accelerazioni e deviazioni
infinitesime, in passo visionario.
Alla visione, al regard, egli si rivolge elidendo ogni affettazione di stile e di modo, con sguardo diretto e arguto, con l’umiltà, in prima istanza, di un what you see complice della storia dei rapporti tra pittura e fotografia, senza l’abbigliamento di una preventiva clausola di sottrazione e di trascrizione. Altro gli sta a cuore. Il farsi forma e, più, il farsi clima emotivo della scena attraverso la luce; della luce, quell’incidere sui corpi, quel bagnarli delle proprie temperature restituendoli in sorta di apparizioni di dubitante fisicità, di sfuggente plasticità, di inafferrabile sensualità, ma di intensa presenza; della presenza, quella reticenza narrativa, quella istantaneità atmosferica, come momento non esemplare di una fluenza luminosa che vale il tempo.
Ecco, dunque, l’operare sui toni in diminuendo, come scavando nell’ombra, negli interni, che rimontano alle bianchezze di luce diurna senza algori mentali, come per transito naturale d’affetti.
Ecco, per converso, i paesaggi marini e, più, la scommessa tematica di Nudo nell’orto, tentare condizioni luminose alte, piene, quasi un nitore che la luce solare rende esemplare, fra dorature meridiane e toni argentini. ludice va saggiando, in questo suo ancor breve corso d’opera – ma che ne fa, già, una delle figure problematicamente più autentiche e interessanti della generazione nuova, una sorta di metabolizzazione definitiva dello iato tra modernità a tradizione, tra vero ottocentesco e artificio mentalmente analizzato novecentesco, in nome di una normalità dello sguardo che sia consapevole, colta, orgogliosa dei propri retaggi storici, ma a un tempo capace di esercitarsi per visioni fragranti, dirette, non allusive ad altro che alla propria qualità d’esperienza.
Non è un caso, in tal senso, che egli operi attentamente, parimenti che alla identificazione del tono luminoso, sul taglio d’immagine, bordeggiando i protocolli di genere ma sempre immettendovi deviazioni significative: non è, il suo, un comporre ordinato, ma un continuo decostruire e ricostruire, sino al punto in cui la visione si innesca di una sorta di teso equilibrio interno, appena riverberante ma fondamentale per far lievitare la più esplicita azione sui valori di tono.
Molto di tali ambizioni pittoriche è nei quadri presenti, e molto altro si intuisce, in termini di sviluppi, precisazioni, decantazioni. E un lavoro con un destino, quello di ludice: del quale, è certo, sarà assai fruttuoso esser curiosi.

In catalogo “Giovanni Iudice”, 2002
Galleria Brera 5 Milano edizioni Mazzotta

Elena Pontiggia

Elena Pontiggia

Giovanni Iudice. Il senso del disegno

Il disegno, diceva Ingres, è la probità dell’arte. È un aforisma che, tradotto in italiano corrente, significa pressappoco: “il disegno dà la misura dell’onestà e dell’autenticità di un artista”
Nel caso di Giovanni Iudice, effettivamente, il disegno sembra testimoniare una vocazione espressiva autentica e senza trucchi. Le sue opere si reggono soprattutto sui valori del disegno. Sembrano istantanee scattate con la matita.
Sembrano, ripetiamo, ma non lo sono. Iudice, a prima vista e per comodità di definizione, potrebbe essere considerato l’erede di una scuola realista, che proprio in Sicilia ha avuto una tradizione alta e ininterrotta, sia nel campo della pittura che in quello della fotografia.
Il realismo di Iudice, però, è così preciso e meticoloso, così millimetrico e analitico, da risultare estraneo alle categorie più prevedibili. Del resto già Morandi avvertiva che “non c’è niente di più astratto del visibile”, intendendo dire che non c’è niente di più metafisico delle cose concrete. (La contrapposizione fra astrazione e figurazione, sia detto per inciso, è ormai felicemente superata, e in ogni caso non riguarda la generazione di ludice).
Osserviamo dunque qualche disegno del giovane pittore siciliano. Spiaggia, per esempio. Apparentemente è la cronaca di una giornata al mare, il frammento di una scena che abbiamo visto tante volte: bambini, ragazzi, uomini che giocano sulla spianata di sabbia, figure che camminano o nuotano fra le onde, non lontano da riva, sullo sfondo di una testuggine di ombrelloni e bagnanti.
E un’immagine che non ha niente di ermetico: d’altra parte non c’è niente di più misterioso delle cose in cui non c’è nulla da capire.
E poi la traduzione della scena in un accordo di soli bianchi e neri, in un implacabile contrappunto di valori luministici; la sapiente esplorazione delle gamme dei grigi, degli argenti, delle ardesie (il disegno amalgama i toni della visione: diventa colore, anzi copre l’estensione di un’intera tavolozza); il potenziamento della luce, che non brilla e non splende, eppure fa da contraltare, da paradossale ombra a tutti gli elementi della scena contribuisce a mettere fra parentesi la concretezza della visione. Il tempo in cui avviene o è avvenuta la vicenda (ma si può davvero definire tale? Le figure di Iudice non agiscono e non hanno storia, al massimo vivono) non è più così chiaro. Potrebbe essere ieri, ma anche trent’anni fa. O, forse, domani.
Concreta è, semmai, la fisicità degli elementi: una matericità sottilmente indagata con la matita, attraverso i minimi corrugamenti della superficie, attraverso il lieve vibrare delle masse di bianco e nero. E una forma compiuta, quella di Iudice, che però nelle pieghe del suo realismo rivela perfino qualche suggestione informale.
Ma, ancora, dobbiamo chiederci: questa ostinata e tetragona fedeltà alla visione, così ome si presenta; l’apparente rinuncia a scegliere fra i vari particolari; ‘impassibilità dello sguardo che sembra eludere ogni confessione autobiografica, ogni posizione soggettiva, anzi ogni cognizione dell’io, che cosa nasconde?
Le cose, insomma, si stanno complicando. Allora stacchiamoci dalla Spiaggia e interroghiamo un altro disegno: per esempio Pachino, del 1997.
Qui vediamo le case disadorne di un paese del Sud, che fiancheggiano una strada in salita, percorsa da un rigagnolo d’acqua sporca. Due avvisi funerari, affissi ai muri, introducono con discrezione un’idea di lutto e di morte.
Iudice, decisamente, non punta sulla facile bellezza. Prima non l’avevamo notato, ma nella Spiaggia aveva spento i colori più decorativi (eppure in Sicilia il mare cattura tutti i toni del verde e del cobalto: non per indulgere alla retorica, ma qualche concessione l’artista poteva anche farla. Invece, niente). Così, in questa via di Pachino, sarebbe bastato poco: far splendere di bianco i muri calcinati delle case, giocare con le ombre.
Ma proprio questo è il punto. Iudice racconta una realtà dimessa e, tutto sommato, dolorosa. Una realtà senza maschere e senza illusioni.
Intendiamoci, nei suoi disegni non accade niente di drammatico, anzi. Una ragazza passeggia per la strada, un’altra prende il sole sulla sdraio (Giardino, 1999), una terza esce dal bagno (Figura che si veste, 2000). Una porta si apre su una cucina componibile, ben fornita di mestoli, elettrodomestici e detersivi (Interno di cucina, 2001). In una stazione di polizia ferroviaria non hanno segnalato nemmeno uno scippo. Tutto è calmo, immobile. (La stazione, 1999). Anche la malattia, quando appare, è riportata in una cornice domestica, senza gridi (La vecchia ammalata,1996).
Il dramma, dunque, non c’è. A differenza di tanto realismo e di tanto espressionismo, nelle opere di ludice non c’è nessun teatro dell’angoscia, nessuna accademia del negativo. Eppure. Eppure il tono ribassato del bianco e nero, l’assenza di qualunque nobiltà della scena, la rinuncia caparbia a ogni abbellimento (come in quell’amplesso che si consuma senza giochi di seduzione, sotto i grani di un rosario) ci mettono di fronte a uno specchio impietoso.
La nostra vita è così, senza lode. Sarà pure senza infamia, ma questo non ci consola. Come dice Nanni Cagnone “se solo fossimo un po’ più eleganti, potremmo vivere nella Suburra”
Nei disegni di Iudice non c’è angoscia, abbiamo detto. Ma un’ansia sottile nasce da quel senso di finitezza, di insufficienza e di povertà (una povertà mentale, più che economica) che ogni immagine trasmette. E nasce, più ancora, da un sentimento di sospensione che il disegno comunica.
Nei suoi fogli tutto è troppo preciso, per non risultare sfuggente. Tutto è troppo esatto, per non risultare indefinito. Tutto è troppo evidente, per non risultare oscuro: di quell’oscurità che non si dirada a colpi di formule, grazie agli addetti ai lavori, ma rimane un gorgo e un grumo insolubile.
Hopper, Wyeth, la lezione di stile della fotografia e del cinema hanno dato ai disegni di Iudice una dimensione metafisica. Il suo realismo non si immerge nelle cose, ma le sovrasta. E lui stesso, Iudice, ha capito che non si può parlare di realtà se non si ammette che della realtà fa parte anche il mistero. Anzi, ne è la parte preponderante.

in catalogo Giovanni Iudice Dipinti e disegni
Galleria Brera 5 Milano 2002 Mazzotta Edizioni

Marco Vallora

Marco Vallora

Il corpo della pittura

…Curiosamente, ma coerentemente, ludice si lamenta che qualche esegeta abbia regalato alle sue tavole un pathos d’indignazione sociale, che la sua attenzione al reale non vuole ammettere o meglio, non vuole perseguire. Ma a giudicare da come i suoi nudi si squadernano arresi e come appesi al gancio domestico dello stupore, guardando fissamente nel mirino della nostra curiosità d’intrusi, è ovvio che gli stessi si ripropongono ogni volta come un interrogativo involontario sul ruolo voyeristico dell’occhio, che scruta e stampa nel vuoto, questo luminosissimo negativo del sotto-vivere quotidiano (anche quando ci si sposta in spiaggia: questa trascrizione chimica e moderna delle occasioni boudiniane, o macchiaiole, di laica conversazione balneare). E pensando pure al gioco di specchi deformi e di occhi deviati sin dalla pittura manierista credo che sia difficile trovare un similare autoritratto dell’artista come giovane orinatore: non certo una desacralizzazione del ruolo di pittore, ma semmai lo specchio dilatato e autocritico di un artista, che si guarda anche, pittoricamente, nel contorno ‘indiscrezione della quotidianità. Dove sta realmente lo specchio, in questo autoritratto da Lopez Garcia sicilianizzato? …

dal catalogo mostra In Forma di Figura, 2002, Salarchi Immagini edizione